Il bel grappolo dorato della passerina, abile nel rendere una produzione abbondante e costante, ha sempre avuto un certo fascino sui vignaioli in quanto in grado di generare reddito e quantità senza troppi sforzi.
A tal punto che era comunemente conosciuta tra loro con i nomi di pagadebito o cacciadebito, mostosa o empibotte, caccione sino ad arrivare a uva d’oro.
In Abruzzo si usava chiamarla trebbiano di Teramo o camplese. Tutti questi diffusi sinonimi hanno generato un’indubbia confusione con uve dal comportamento similare come il trebbiano o il bombino bianco. Se dal primo si discosta in maniera significativa, oggi gli ampelografi riconoscono che c’è un’indubbia corrispondenza tra bombino e passerina.
Questo ci permette di collocarlo geograficamente come un vitigno diffuso lungo buona parte della dorsale adriatica (dalla Romagna alla Puglia) con buona presenza di popolazioni diffuse nel Lazio, in Umbria e in Basilicata. In campagna ha una maturazione regolare e una raccolta in epoca mediana (settembre).
La vinificazione evidenzia un’elevata resa in succo, una valida presenza di zuccheri e di acidità. Tanta generosità produttiva la incanala in un uso votato alla creazione di vini floreali e fruttati, immediati, da sfruttare nell’epoca giovanile o votati a piccolo invecchiamento.
Tali caratteristiche la rendono particolarmente idonea per spumanti realizzati con Metodo Martinotti (o Charmat che dir si voglia) dove può sprigionare tutta la sua fragranza aromatica. Nel comprensorio di Ripatransone era l’uva tradizionalmente usata per affascinanti Vin Santo la cui produzione è oggi purtroppo ridotta al lumicino.
La sua presenza dà vita all’omonima DOCG Offida Passerina, entra nelle DOC Falerio, Terre di Offida, Controguerra, Abruzzo e Tellum e in svariate IGT dell’Italia centrale.
È l’uva a bacca bianca principale del Piceno.
Autoctona nel versante appenninico di Marche e Abruzzo, si è diffusa su larga scala solo a partire dagli anni ’90 del vecchio secolo. Deve il suo nome al fatto di esser stata considerata in passato, in epoca preindustriale, “l’uva delle pecore” in quanto la sua presenza era stata notata sui sentieri della transumanza ovina. La sua natura di uva resistente al freddo, alle muffe e ai parassiti, capace di vegetare bene anche sui terreni aridi e magri di montagna ne permetteva la coltivazione nelle aree più interne, laddove gli altri vitigni si arrendono.
Uno dei suoi sinonimi ufficiali è vissanello, dovuto alla copiosa presenza nel territorio dell’omonimo comune pedemontano maceratese.
La sua vigoria permette anche di maritarla agli aceri sebbene oggi questa pratica sia del tutto scomparsa. Il grappolo piccolo e la produzione media per giunta non sempre costante è ripagata da un’ottima vocazione alla qualità: se raccolta in tempo riesce ad avere un importante accumulo zuccherino senza sacrificare le notevoli dosi di acidità tartarica e malica presenti.
Per questo se ne ottengono vini pieni, saporiti e di buona presenza alcolica ma al tempo stesso capaci di esprimere sapidità e profili olfattivi freschissimi tra ricordi di agrumi gialli, erbe di campo e anice.
Essendo un’uva precoce, l’epoca di raccolta ideale avviene in genere entro le prime due settimane di settembre.
La vinificazione ha luogo quasi sempre ricorrendo all’acciaio o cemento, più raro è l’uso del legno.
A oggi è raro anche l’uso come base per spumanti Metodo Classico sebbene abbia un’acclarata attitudine per la produzione.
Oltre che nella DOCG Offida, rientra anche nei disciplinari DOC del Falerio, dei Colli Maceratesi Bianco e in quelle di Abruzzo, Controguerra e Tellum. Il suo uso è permesso in molteplici IGT sparse nella fascia centrale dell’Italia tra cui le diffuse sono Marche Bianco, Colli Aprutini e Colline Teatine.
Quando si dice verdicchio il pensiero corre subito alle Marche. La ragione è facilmente spiegata: è la bacca bianca autoctona più diffusa sul territorio.
La sua scarsa capacità di adattamento al di fuori dagli areali dei Castelli di Jesi e di Matelica ne danno una forte caratterizzazione territoriale. Dal punto di vista della morfologia e del dna è identico al trebbiano di Lugana e al trebbiano di Soave, uve diffuse tra il Lago di Garda e il quadrante ovest del Veneto. Alcuni sinonimi sono i nomi di verdello, verduschia, peverella (solo nella provincia autonoma di Trento) e trebbiano verde (solo nel Lazio).
La sua presenza sul territorio a cavallo delle province di Ancona e Macerata è antichissima e accertata da diversi documenti di fine medioevo, per lo più atti di carattere notarile. L’origine del nome è presto spiegata: anche a piena maturazione gli acini non perdono mai quelle sfumature verdi che ne caratterizzano il grappolo. In vigna ha la caratteristica di esser sterile nelle prime 2 gemme per cui mal tollera le potature corte. Inoltre è piuttosto delicato sotto il profilo della resistenza alle muffe e alle altre malattie per cui ha necessità di esser allevato in declivi collinari ben esposti e arieggiati.
Matura in epoca regolare, vale a dire tra settembre e l’inizio di ottobre.
La sua vocazione dà la possibilità di interpretarlo in più tipologie e versioni: si può raccogliere in via anticipata per dar vita a spumanti di carattere così come a vini d’annata dove cogliere la freschezza di sensazioni agrumate oppure a maturazione per accedere a sensazioni fruttate più ampie. Si presta anche alla surmaturazione, dove regala accenti di frutta candita ed erbe aromatiche, e crea dei raffinati passiti. Ama la vinificazione in acciaio ma regge bene anche la maturazione in botti di legno di diverso volume così come si presta per la vinificazione in rosso e il successivo affinamento in anfore di terracotta. Per questo motivi è universalmente riconosciuto come un vitigno eclettico e completo.
Il suo temperamento ha permesso che si diffondesse sull’intero territorio marchigiano e non è raro trovarlo nell’ascolano dove era una delle componenti dell’uvaggio che dava vita alla denominazione Falerio dei Colli Ascolani (il cui nome e disciplinare è oggi mutato).
Attualmente è il protagonista delle denominazioni che hanno in etichetta il nome di Matelica e dei Castelli di Jesi (inclusa la versione Riserva), Esino Bianco, Colli Maceratesi Bianco, Colli Pesaresi Bianco e nel Marche Bianco IGT.
Nel parlare di trebbiano viene in mente il conte Giuseppe di Rovasenda, grande ampelografo ottocentesco, che disse “…non assumo qui la spinosa impresa di decidere le differenze di tutti i trebbiani…”.
Basti questo per immaginare il guazzabuglio di vitigni riconosciuti come trebulanum, tra cui anche quelli che non ne hanno il diritto. Ciò è dovuto al fatto che esso è largamente diffuso sul suolo italiano e ha lontanissime origini. Ne parla già Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scritta 77 anni dopo la morte di Cristo. Sebbene sia considerato uva italica, esso ha trovato una seconda casa in molte nazioni europee tra cui la Francia. Col nome di ugni blanc è largamente allevato nella zona di Cognac per la produzione dell’omonimo e celebre distillato.
La varietà più diffusa in Italia è senza dubbio il trebbiano toscano, conosciuto anche come procanico in Umbria e alto Lazio. La sua capillare presenza è legata alla caratteristica di dare un raccolto regolare e abbondante su ogni tipo di terreno. Una peculiarità molto amata dai vignaioli che negli anni ’60 e ’70 conferivano buona parte del raccolto alle cantine sociali: per loro rappresentava una fonte di reddito costante e poco soggetta alle bizzarrie vendemmiali.
Il rovescio della medaglia di tanta sovrapproduzione era la creazione di vini aromaticamente neutri e dalla struttura e sapore poco consistenti. A partire dagli anni ’90 si è diffusa la pratica di un’agronomia più attenta agli aspetti qualitativi che non quantitativi e l’uva ha reagito mostrando una personalità insospettabile. Nel Piceno è la percentuale più importante della denominazione Falerio (nata nel 1975 come Falerio dei Colli Ascolani, nome poi accorciato da una modifica del 2011 al disciplinare di produzione), blend a cui dà vita con il concorso principale di uve pecorino e passerina.
In Abruzzo è vinificato tradizionalmente in purezza. I vini che ne discendono, sebbene vengano considerati come vini da bere giovani, al contrario hanno dato prova di regger bene alla prova del tempo dando degli aromi interessanti sotto il profilo della complessità.
Possiamo affermare senza possibilità di smentita che lo Chardonnay sia il vitigno a bacca bianca più amato al mondo.
La sua facile adattabilità agronomica, la capacità a restituire rese regolari ed abbondanti che poi si tramutano in vini dagli spiccati accenti fruttati ne hanno sancito la diffusione in tutto il mondo, testimoniata dal fatto che è presente praticamente in tutti i paesi dotati di un sviluppato sistema enologico. La sua origine va cercata nel Mâconnais, in Borgogna. Lì produce alcuni dei bianchi più importanti di sempre individuati dalla preziosità del Montrachet e dalla celeberrima “divina collina”. Ma spostandosi di qualche centinaio di chilometri lo si vede produrre straordinari Champagne, talora in blend con i diversi pinot, talora in purezza come nel caso dei gioielli della Côte des Blancs.
La sua diffusione sul territorio italiano è omogenea.
La sua versatilità permette di leggere i diversi terroir con sfumature diverse. In Alto Adige se ne ricavano bianchi di pronta beva e complessi vini Riserva maturati in piccoli legni. Nel Trentino e in Franciacorta si tramutano in alcuni dei Metodo Classico più espressivi dell’intera produzione spumantistica nazionale. Friuli e Toscana danno vita a vini potenti, di buona longevità. Si attraversa tutta la penisola sino ad arrivare in Sicilia dove il clima caldo esalta sensazioni di frutta tropicale in palato morbido e consistente.
Nella nostra azienda è presente da moltissimi anni e l’esperienza ci ha portato a usarlo anche per la produzione delle nostre bollicine.
La sua classe indiscussa, l’accattivante vena fruttata, la complessità che riesce ad esaltare mediante sboccature prolungate nel tempo non hanno paragone con nessun’altra varietà a bacca bianca.
La grande famiglia dei Moscato racchiude al suo interno cultivar dalle caratteristiche molto diverse tra loro, alcune a bacca bianca altre a bacca nera o rosa, accomunate dal fatto di avere una comune origine orientale e di avere una spiccata vena aromatica.
Il moscato bianco è diffuso particolarmente in Piemonte dove crea sia il Moscato d’Asti sia l’Asti Spumante, celebri vini mossi da dessert. Ma la sua diffusione e coltivazione attraversa tutta la penisola dove, a seconda delle usanze locali, è usato per produrre anche vini passiti o più raramente impiegato per la produzione di vini bianchi fermi e secchi.
Lo si trova in Valle d’Aosta (conosciuto col nome di muscat blanc a petit grain o muscat de Chambave) così come in Sardegna (particolarmente pregiato quello di Tempio Pausania nato sui graniti della Gallura), a Montalcino (usato nel Moscadello), sui Colli di Parma, in Puglia (Moscato di Trani) sino ad arrivare a Noto e Siracusa.
L’uva è piuttosto delicata, sente molto la diversità del terreno e non è molto costante nella resa. Una volta inquadrato il miglior sito produttivo rende uve molto profumate, dai caratteristici ricordi muschiati e di erbe aromatiche, ricchissime di zuccheri tanto da esser note all’epoca dei romani come uve apiane per l’irresistibile capacità ad attrarre le api.
La spumantizzazione in autoclave con Metodo Martinotti permette di esaltarne la fragranza aromatica e preservarne la delicata dolcezza del sorso. La bassa gradazione alcolica aumenta la piacevolezza del sorso e lo rende perfetto al momento del dessert o, servito molto freddo, come inconsueto aperitivo.
Il Montepulciano è l’uva a bacca nera più importante del medio versante adriatico.
Pochi sono i dubbi sul fatto che sia originaria della Valle Peligna, tra le province de L’Aquila e Pescara. Più nebulosa e incerta è l’origine del nome.
Montepulciano infatti è una cittadina toscana rinomata per i suoi vini ottenuti da prugnolo gentile, uno dei tanti sinonimi del sangiovese. Per diversi secoli le due uve furono confuse sebbene abbiano caratteristiche marcatamente diverse.
Solo nel 1853 il Silvestri, uno studioso di ampelografia, separa correttamente le due uve indicando con “primaticcio” il sangiovese (dovuto al fatto che l’uva di origine toscana matura ben prima) e “cordisco” invece le uve montepulciano (sinonimo ancor oggi considerato corretto).
Dal punto di vista agronomico è un’uva tardiva che ama i climi caldi e la collocazione collinare dei vigneti. Queste caratteristiche sostanzialmente ne impediscono la coltivazione a nord del monte Conero, promontorio sul mare in prossimità di Ancona, mentre è ampiamente presente, nel maceratese e nel Piceno, in Molise e nel nord della Puglia. In Abruzzo, terra patria, è allevata praticamente ovunque. Più sparute popolazioni si trovano anche nel Lazio, in Umbria e nel sud della Toscana.
Nei terreni ideali può esprimere la sua tipica generosità zuccherina, la ricchezza degli estratti e una fitta trama tannica. Il suo uso in purezza dà vita a vini materici, molto fruttati da giovani e capaci di invecchiamenti decennali nelle versioni maturate in legno dove il tempo svela tratti di maggiore complessità, armonia ed eleganza.
Il montepulciano si rivela ottimo anche per produrre consistenti rosati, ricchi di sapore e sfumature odorose di fiori e frutti di bosco.
In blend con il sangiovese dà vita al Rosso Piceno, una delle più antiche denominazioni marchigiane che solo in un ristretto ambito territoriale può fregiarsi dello status di Superiore.
In Velenosi la coltivazione del montepulciano rappresenta senza dubbio l’uva più importante in virtù del suo fedele, inequivocabile aggancio al territorio e alle tradizioni più radicate.
Il sangiovese è una delle uve a bacca nera italiane più famose e di gran lunga l’uva più importante della fascia centrale della nazione dov’è diffusa con estrema capillarità.
La vasta capacità a legger il territorio dando vita a molteplici biotipi ne hanno reso molti sinonimi nel corso della sua storia: prugnolo gentile, brunello, sangiovese piccolo, morellino, sangiovese montanino, sangiovese romagnolo, sangioveto sono alcuni dei principali.
Anche il nielluccio, l’uva più piantata in Corsica, è riconosciuto dagli studiosi come clone di sangiovese. Non entreremo nella disputa tra Toscana e Romagna per la sua zona di origine, cosa peraltro non completamente acclarata da parte degli studiosi che parlano generalmente di “Appennino Centrale” però ci sentiamo di affermare che l’uva ha una storia profonda e che dà origine ad alcune delle denominazioni più iconiche della storia del vino italiano tra cui Brunello di Montalcino, Vino Nobile di Montepulciano, Morellino di Scansano, Carmignano, Chianti Classico, Montefalco Rosso.
Nelle Marche entra in blend con il montepulciano per creare il Rosso Piceno e il Rosso Piceno Superiore. Una piccola quota è prevista anche nelle denominazioni del Conero in omaggio alla tradizione. Dal punto di vista agronomico il Sangiovese è uno splendido marcatore del territorio, nel senso che assorbe le caratteristiche pedoclimatiche del luogo e ne rende una fotografia fedele.
Matura in epoca mediana e può dar vita a vini dalla netta impronta floreale e fruttata in gioventù per poi, nelle versioni migliori, attingere a una raffinatezza espressiva alleata del tempo che ne forgia un carattere altero ed elegante, capace di invecchiamenti decennali.
Merito della sua acidità e del suo corpo flessuoso.
Nei nostri Rosso Piceno Superiore è l’elemento che ingentilisce la materica e generosa potenza del montepulciano: vitigni complementari, non antagonisti, finiscono per completarsi a vicenda per via delle diverse peculiarità organolettiche.
La lacrima nera ha la sua culla a Morro d’Alba e in pochi comuni limitrofi posti sui colli alle spalle di Senigallia. Qui sono impiantati meno di trecento ettari di vigneto specializzato per tre tipologie: Lacrima di Morro d’Alba, la versione più giovane, fresca e floreale; Lacrima di Morro d’Alba Superiore, con maggiore struttura e la presenza di più spiccate sensazioni fruttate; Lacrima di Morro d’Alba Passito, vino dolce ottenuto per appassimento naturale in pianta o in fruttaio delle uve medesime.
Per comprendere il suggestivo nome dato al vitigno a bacca nera originario di Morro d’Alba tocca recarsi in vigna in epoca di vendemmia. Si noterà che qua e là la buccia spessa dell’acino tende a spaccarsi lasciando percolare delle stille di mosto. Questo tipico “lacrimare” ha suggerito il nome. Un temperamento agronomico non facile, comunque.
Un po’ per via del fatto che il mosto attira insetti di ogni tipo, un po’ perché la pianta è generalmente poco portata a sostenere le avversità climatiche. Per gestirla al meglio occorre una viticoltura attenta ed esperta, in grado di controllare che la maturazione zuccherina del mosto incontri quella dei vinaccioli, vale a dire quella dei tannini.
La raccolta avviene generalmente intorno alla metà di settembre. Uve adeguatamente mature daranno accesso al tipico carattere semi-aromatico del vitigno che regala i tipici sentori floreali di viola e di rosa, dal timbro inconfondibile.
La vinificazione avviene quasi sempre in acciaio per preservare il carattere olfattivo intenso e fragrante e la messa in commercio avviene piuttosto rapidamente. La robusta dotazione tannica, presente in particolare nella tipologia Superiore, permette comunque una longevità inaspettata e ancora poco esplorata nelle sue potenzialità evolutive. Il legno è generalmente ancora poco usato, se non per l’eventuale tipologia Passito.
Il vitigno è diffuso anche fuori dal suo alveo naturale di Morro d’Alba in quanto la coltivazione è ammessa in tutta la regione Marche (oltre che in Umbria e in Puglia) ma raramente viene usata in purezza: ne basta un po’ nel blend per conferire accattivanti sensazioni olfattive a vitigni rossi aromaticamente più neutri.
Si tratta di una cultivar a bacca nera originaria della Gironda. Come tale è inclusa a pieno titolo nelle varietà di origine bordolese e rientra nell’uvaggio di buona parte dei locali Chateaux. Si fa eccezione nel distretto di Pomerol dove è spesso usato in purezza. Il suo ottimo temperamento agronomico è dato dal fatto di avere grappoli dagli acini grandi di facile maturazione e resa abbondante, sempre costante su ogni tipo di terreno.
L’adattabilità ne ha agevolato una diffusione sostanzialmente planetaria, esaltata dalla caratteristica di render profumi spiccati, corpo pieno, di buona presenza alcolica anche in vini giovani. In climi freschi ha accenti marcatamente floreali mentre in areali caldi sviluppa profumi fruttati particolarmente spiccati.
L’assenza di spigoli acidi e la dolcezza tannica la rendono un’uva versatile, in grado di stemperare gli accenti più rustici di cultivar autoctone o al tempo stesso conferire colore e struttura a vitigni dalle caratteristiche più blande. Il carattere docile, facilmente attestato su sensazioni facilmente replicabili sia nel vecchio sia del nuovo continente, ha gettato un po’ d’ombra sul suo omologante uso in purezza stigmatizzato dal famoso film a tema vinoso “Sideways – In viaggio con Jack” (2005) dove il protagonista, impegnato in un viaggio tra le cantine della California, afferma senza mezzi termini e con un’espressione colorita di “non aver alcuna intenzione di bere Merlot” imprimendo così un giudizio negativo netto e inappellabile nell’immaginario del grande pubblico. In realtà, in zone di acclarata vocazione, può dare vini di ottima personalità e qualità.
In Velenosi preferiamo non usarlo in purezza ma ne sfruttiamo il talento nell’offrire il meglio delle sue caratteristiche in blend con altri vitigni, sfruttando l’indole a dare levatura strutturale e notevole qualità polifenolica.
Il cabernet sauvignon è la principale delle cosiddette uve bordolesi a bacca nera, nomea che condivide con il cabernet franc, merlot e petit verdot. Deve il suo nome al fatto che probabilmente si è originato in seguito a un incrocio spontaneo di cabernet franc e sauvignon blanc, uve entrambe originarie del bacino della Gironda.
Al pari dello chardonnay, è un’uva molto amata e diffusa in tutto il mondo. Merito della sua regolarità produttiva e della facilità di maturazione, del robusto temperamento agronomico che permette di regger con disinvoltura a buona parte delle malattie più diffuse (con l’eccezione dell’oidio) e, su tutto, per la capacità di dare rossi di alta levatura qualitativa. Si pensi ad esempio ai tanti grandi vini di Bordeaux che hanno proprio nei fitti tannini e nella viva acidità del cabernet sauvignon l’ossatura portante della loro classe e longevità.
La sua diffusione nel mondo è legata anche alla ben meritata fama di “vitigno migliorativo” in quanto è spesso usato in blend con vitigni autoctoni.
La sua adattabilità ai territori senza generare particolari problematiche lo hanno veicolato in gran parte degli stati europei e statunitensi (con particolare vocazione in California) mentre è una star di prima grandezza nel nuovo mondo: Cile, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa possono vantare degli ottimi Cabernet Sauvignon, capaci di rivaleggiare ad armi pari con buona parte delle produzioni del vecchio continente.
Anche in Velenosi se ne sfrutta il talento qualitativo usandolo in accoppiata con vitigni locali per ottenere vini “glocal”: vini che sanno portare le specificità del Piceno in tutto il mondo usando una lingua comprensibile a chiunque, senza perdere nulla in termini di personalità e alto profilo.
Chi ama il vino è immancabilmente, perdutamente innamorato del Pinot Nero.
Nessun’altra cultivar rende la magia di vini così speziati, setosi, complessi e profondi. I vini rossi più costosi al mondo sono prodotti con le sue uve e immancabilmente provengono dalla Côte d’Or, in Borgogna. Il suo ruolo non è meno centrale quando l’argomento è quello dei vini mossi. Nella regione più famosa al mondo per la tipologia si tramuta di setosi Blanc de Noirs o in Champagne Rosé fruttati e consistenti. Ad acuire il suo potere seduttivo ci sono due elementi peculiari. Il primo è di tipo agronomico: è un uva davvero difficile da coltivare.
È intollerante al caldo, ha grappolo piccolo, piccola resa e come se non bastasse fa continui capricci in epoca di maturazione. Insomma, per ogni vignaiolo è croce e delizia oltre che rappresentare una sfida imprevedibile vendemmia dopo vendemmia. Un detto vuole che anche nelle zone migliori “dà una buona vendemmia ogni cinque”. Questa irregolarità porta al secondo aspetto, ossia il fatto che vi sono pochi posti al mondo dove può offrire una qualità assoluta. Oltre alla già citata Borgogna, territorio elettivo, dà ottimi risultati in alcune piccole zone della Germania, in Oregon e nelle parcelle vitate più fresche della California, discorso che vale anche per Australia e Nuova Zelanda.
In Italia ha buoni risultati in Alto Adige e nel Mugello toscano come vino rosso fermo mentre è largamente usato in Oltrepò Pavese, Trentino e Franciacorta nella produzione dei rispettivi spumanti. In Velenosi lo si è messo a dimora in freschi declivi per poter conferire alle nostre bollicine un tocco di finezza e di delicati ritorni fruttati che all’olfatto ricordano i frutti di bosco.
Area riservata
Regolamento (UE) n. 1308/2013 – art.50 – PNS Misura Investimenti. Campagna 2020/2021
FONDO NUOVE COMPETENZE AIUTI ANNO 2021
Denominazione e codice fiscale del soggetto ricevente
Velenosi Srl, Via dei biancospini 11, 63100 Ascoli Piceno – C.F. 01839990445
Denominazione e codice fiscale del soggetto erogante
ANPAL – Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, Via Fornovo 8, 00192 Roma – CF: 97889240582
Somma incassata o valore del vantaggio fruito
93.507,50 €
Causale (ovvero una breve descrizione del tipo di vantaggio).
AVVISO PUBBLICO con oggetto “PROGRAMMA OPERATIVO NAZIONALE SISTEMI DI POLITICHE ATTIVE PER L’OCCUPAZIONE AVVISO PUBBLICO FONDO NUOVE COMPETENZE – FNC”, approvato con la Determina n. 461 del 04.11.2020 del Direttore Generale di ANPAL